I GIORNI RITROVATI - Viterbo/1993
A cura di Giorgio Falcioni
La profonda compenetrazione di una passione conoscitiva emerge in Sandro Conti dalle esperienze di una realtà in evoluzione, in cui le figure, gli oggetti, i paesaggi, svelano a poco a poco gli elementi reconditi che hanno toccato l'animo dell'artista, che ritrae la memoria del vissuto e forse del sognato, più della raffigurazione dell'entità astratta o concreta che si formalizza nel tratto e nel colore; le cose animate o inanimate non sono fini a se stesse, ma media destinati a far scoprire aspetti velati e presenze adombrate, a stimolare i segnali evocativi della coscienza del fruitore.
Nei quadri di Sandro Conti, dalla staticità del soggetto, emerge quindi una dinamicità propria dei particolari; gli elementi concorrono a formare una struttura spaziale che va oltre l'oggetto, realizzando così una trans-figurazione, cioè un passaggio dall'esplicitazione dell'oggetto all'uso dell'oggetto stesso e perciò all'umanità di cui esso è pervaso e che lo vitalizza. L'artista non perde occasione per rammentare che anche la "cosa" astratta ha una funzione propria che va oltre la forma e passando dalla cronaca alla sua traduzione simbolica realizza una più accentuata intensità, perché la cronaca valorizza le implicazioni, è più coerente come linguaggio e porta all'astrazione: l'astratto è presente nella realtà, come pure il surreale e il metafisico che emergono anche dalle situazioni ordinarie, attraverso le volute ambiguità di taluni particolari, ad esempio nelle immagini riflesse di "il gatto nello specchio", mentre la presenza di elementi animati delimitanti lo spazio richiamano l'onirico di Magritte.
L'influsso di Cavalli e della Scuola Romana, attualizzato dal messaggio sensoriale di Balthus, è evidente in alcuni dipinti e particolarmente nel moderno ed attuale - perché meno legato alla tradizione rinascimentale - "Passa la banda" che costituisce una espressione importante nella ricerca di Conti volta a rinnovare modelli del passato, dalle figure ieratiche degli etruschi alle composizioni "piene" di Piero della Francesca.
Il contributo della memoria riempie i quadri dedicati alla città e alla terra in cui l'artista ha vissuto la sua infanzia, con un attento approfondimento del rapporto tra natura e architettura, tra animale e vegetale, tra la fioritura delle piante e il gotico "fiorito" dei campanili, nel contrasto fra le tinte di cieli ora di velluto ora drammaticamente violenti e la variabile monocromatica del tradizionale peperino; in "Architetture" la naturale architettura degli alberi asseconda i soggetti inquadrandoli strutturalmente, cornice involontaria e al tempo stesso essenziale della costruzione naturale. Il rifiuto del surreale come elemento paradossale sfocia, quindi, in una atmosfera al limite della realtà e formalizza la realtà della vita: le ferite dei vicoli e la teatralità delle scene degli antichi abitati, i solchi caldi del Bulicame che escono dalla terra. E si compie anche il percorso inverso,: ne "I giorni ritrovati" la memoria sospinge il ricordo all'aspirazione del sogni, la piazza ritorna primordiale campo di calcio in cui i ragazzi possono riappropriarsi del "ludico" medievale, in una coerente struttura dinamica pur nel tradizionale dell'iconografia.
Un "Paesaggio inquietante" di Vitorchiano quasi espressionista per i fenomeni seriali e ritmici, la luce quasi impossibile, l'arco baricentrico assolato che focalizza l'immagine, ispira un involontario riferimento letterario alla metafisica di De Chirico e al mondo espressivo di Escher.
Le strutture compositive che si avvalgono di diversi punti di luce, il rapporto colore-materia, la teatralità delle scene, i nudi non formali ma essenzialmente "umani", i disegni monocromi con punti di colore, i controluce, le differenze di scala, la grafica a volte quasi da incisore, i materiali adattati di volta in volta al soggetto, costituiscono altrettanti mezzi che consentono a Sandro Conti di esprimere la pienezza della sua ispirazione perennemente in bilico tra vissuto e immaginato; e il rapporto interno-esterno di molti suoi lavori sviluppa la convivenza tra l'ambiente, l'uomo e ciò che l'uomo ha fatto, tra le cose e le persone che le vivono, le usano, le caratterizzano.
Significativa è, infine, la miniserie dei "Paesaggi industriali", che propone un nuovo rapporto arte-industria, una cultura che guarda al nuovo modo di vivere della società; sono i segni attuali dell'uomo che sottolineano l'esigenza di abituarsi a convivere con nuovi paesaggi, il diverso rapporto fra paesaggio simbolico e paesaggio naturale: l'autostrada, l'architettura involontaria e impossibile degli irrigatori, le nuove cattedrali dei silos dell'oleificio, "I fiori d'acciaio", gru multicolori che danzano sullo sfondo dei monti Cimini.
"Realtà e memoria" Immagini di Conti in mostra alla sala Gatti
Dal "CORRIERE" a cura di Virginia Catanesi
...il pittore manifesta tutta la sua preferenza per la tecnica dell'acquerello come mezzo espressivo dell'immediatezza, e di cui si deve essere assolutamente padroni per capire di colpo il soggetto, i contrasti luce-ombra, e quali saranno i punti focali rispetto alla composizione.
Colpo d'occhio quindi, grande esperienza e mano sicura.
Sono queste in sintesi le prime impressioni che si rivelano a chi guarda. In mostra sono le opere eseguite negli ultimi sette o otto anni per un sentito omaggio a Viterbo.
Seguendo l'itinerario che suggerisse Conti, ecco dividersi la mostra in sezioni: la prima è il rapporto con la città e con i dintorni, con notazioni ambientali, anche umane; la seconda riguarda le cose del quotidiano, come ad esempio il paiolo in rame, il frutto, il piatto, trasfigurati dalla pittura in un'atmosfera metafisica; la terza sezione rappresenta ciò che è animato in un habitat, ed ecco allora gli animali; il paesaggio industriale è visto come una convivenza ormai obbligata con le macchine, come ad esempio il rapporto prato, covoni di paglia e struttura produttiva.
Le cose più recenti sono le "magie involontarie", il desiderio di tramutare il quotidiano in qualcosa di surreale non come Magritte ma più come De Chirico.
A un amico non ancora incontrato
di Sandro Conti
Ho sempre segretamente desiderato di poter presentare, un giorno, i miei lavori a Viterbo: e non solo per un doveroso omaggio affettivo, perché a Viterbo ci sono nato. Sarebbe come se, dopo tanti anni, volessi mostrare i miei quadri ad un'intima amica che, seppure amata, ho un po' trascurato.
Nel mio caso è diverso: infondo io temo Viterbo. O meglio, la amo e la temo.
La amo per tutto ciò che si ricollega al mondo della mia infanzia.
Abitavo, appena finita la guerra, a Piazza Oslavia e tutto mi sembrava "grande". Era già enorme, a quei tempi, la distanza fra la mia casa e Porta della Verità...
Di quei giorni ricordo tutto, sensorialmente: gli odori delle siepi fiorite e quelli della vecchia "Balilla" con i sedili di pelle, il treno a vapore che sbucava fumante dal nero del tunnel, le ore passate a giocare con le palline di terracotta lanciate a schioccare nella polvere, la tramontana che mi tagliava le orecchie malgrado la sciarpa che m'imbacuccava. E ancora, le galline che movimentavano il pollaio accorrendo ai miei richiami, l'acre odore di gatto nei vicoli scuri del quartiere antico che mi apparivano inabitati, deserti. E ancora...
Ma poi, si sa, l'infanzia finisce e ognuno va incontro al proprio destino.
Gli studi, le relazioni, gli impegni quotidiani, il lavoro, la volontà di esprimermi attraverso l'immagine, hanno man mano assorbito il mio tempo, lasciando per Viterbo soltanto qualche goccia di casuali momenti d'incontro.
Però, riflettendo, è come se consapevolmente rimandassi sempre un appuntamento annunciato - eppure così desiderato - con questa città/amica per timore di non essere adeguatamente aggiornato su come fosse mutata, almeno negli aspetti apparenti.
O forse ho temuto di rimanere per qualche verso deluso.
Ed ecco spiegato perché dico di "temere" Viterbo: perché oggi ho quasi paura di non riconoscerla e, quindi, di non riconoscere più una parte di me.
Certo, in oltre quarant'anni tutto è cambiato e non sempre in meglio.
So bene che il progresso, nei suoi diversi campi di applicazione, privilegia ormai scelte indirizzate a conseguire traguardi di mera funzionalità pragmatica, anche se, personalmente, preferirei che non fossero sottovalutati progetti maggiormente miranti a garantire un habitat più umanamente godibile.
Dunque è giusto o almeno comprensibile che anche la mia città sia cambiata, diventando più "attuale" allineandosi al progresso.
Ed è pur vero che, attraverso il filtro della pittura, si possa oggi meglio decifrare il rapporto consolidato fra l'uomo e le macchine e quindi fra l'arte e l'industria.
Ma, anche volendo considerare quanto ho appena detto, quegli odori inebrianti, quei frammenti di metafisica sospesi fra realtà e mistero, quei guizzi di sorpresa di quand'ero bambino, chi potrà più ridarmeli?
Soltanto il cuore, più della mente.
Io credo che la pittura sia un mezzo idoneo a far rivivere il sognato, a trasfigurare e amare anche le solite o povere cose che noi vediamo, tocchiamo, ascoltiamo, che "usiamo" tutti i giorni.
E ancora credo che attraverso essa si possa comunicare, si possano condividere le sensazioni più varie, le più diverse emozioni.
Per questo, esponendo la mia pittura ispirata da Viterbo, vinco stavolta il timore e forse il pudore di presentarmi all'appuntamento per troppo tempo rinviato con la mia città. Spero così di poter incontrare, assieme a te, altri vecchi e nuovi amici disposti a riscoprire i loro momenti già vissuti, le realtà dell'invisibile, le "cose" amate, i loro giorni ritrovati.